24 Luglio 2024 | Ilaria Cazziol
Cosa Cercano i Nomadi Digitali? Connessioni, Non Solo Connessione
Riflessioni da Plumia Connect, la conferenza dei nomadi digitali a Essaouira, in Marocco, con i protagonisti del futuro del lavoro (e cosa può fare l’Italia per attrarli)
Essaouira - Photo di Ilaria Cazziol

Essaouira, sulla costa atlantica del Marocco, è conosciuta per essere la capitale marocchina degli sport del vento, per ospitare una delle medine più belle e meglio conservate del Paese, per il suo fascino bohemiene, tanto tradizionale quanto internazionale.
Ma da qualche anno è diventata anche qualcos’altro: una delle mete più apprezzate dell’Africa dai nomadi digitali.
Certo: gli sport infiniti disponibili qui, la bellezza aspra della sua fortezza battuta dal vento, i costi contenuti e una cultura aperta e accogliente hanno sicuramente giocato un ruolo. Ma probabilmente ciò che ha fatto la differenza qui è anche una visione politica consapevole, che ha saputo riconoscere in questi cittadini temporanei una risorsa da attrarre e valorizzare.
Lo dimostra il fatto che io ci sia andata proprio per partecipare a una conferenza internazionale sul nomadismo digitale.
Plumia Connect, l’evento di connessione e crescita organizzato dal think-tank internazionale Plumia, che per il secondo anno ha avuto luogo qui.
Ad aprire la conferenza sono stati proprio i rappresentanti del governo locale, intervenuti per confermare come questa città riconosca il valore dei nomadi digitali come nuovi cittadini temporanei.
Plumia Connect Summit, la “Non-Conferenza” sul Nomadismo Digitale
Plumia Connect - Essaouira Maggio 2025 - Photo di Ilaria Cazziol

In realtà chiamarla conferenza forse non le rende giustizia. Questa parola evoca grandi eventi un po’ spersonalizzanti, con gli speaker su un palco lontano dai partecipanti e quel tipico taglio informativo in cui qualcuno insegna qualcosa dall’alto.
Il Plumia Connect invece è stato qualcosa di diverso. Più una chiacchierata continua tra amici mai incontrati prima. Persone che magari si conoscono da tempo tramite uno schermo, un podcast, un blog o un progetto condiviso. È una sorta di comunità temporanea selezionata, che si ritrova per discutere, ascoltare, immaginare.
Organizzato da Plumia, think-tank creato da SafetyWing per dare forma al futuro della mobilità globale, nasce con un obiettivo ambizioso: costruire un “Paese su Internet” per dare ai lavoratori da remoto e ai nomadi digitali diritti globali, scollegati dal concetto tradizionale di cittadinanza territoriale. Perché le persone possano vivere, lavorare, innovare e investire oltre i tradizionali confini con facilità.
Un’idea utopica? Forse. Ma anche la ricerca di una risposta concreta a un bisogno che molti sentono, soprattutto chi non ha la fortuna di possedere un passaporto “forte”: una casa senza confini, dove il tuo status lavorativo, la tua identità e la possibilità di spostarti non dipendano da dove sei nato o da dove abiti.
Plumia Connect Summit, in particolare, è stato pensato come momento annuale per portare avanti questa visione. A Essaouira, per due giorni, si sono riuniti studiosi, attivisti, imprenditori, policy maker e persone che stanno lavorando in un modo o nell’altro verso questa visione.
E io? Io sono andata per ascoltare, ma anche per portare uno sguardo italiano. Per capire come possiamo, come Paese, supportare questa nuova ondata di cittadini globali, e beneficiare delle opportunità che possono creare.
Io mi considero nomade digitale dal 2017. Non perché non abbia una base – ce l’ho, e ci torno spesso – ma perché da allora ho scelto di inseguire un ideale diverso: vivere e lavorare con la massima libertà, decidendo dove e quando ogni volta in base a ciò che mi rende più felice, produttiva, efficace.
Eppure, in questi giorni a Essaouira, mi sono chiesta spesso se quel termine, nomade digitale, descriva davvero chi sono. Chi siamo.
Come Definiamo i Nomadi Digitali?
Chi sono? Quanti sono? Cosa vogliono?
Non è solo una questione filosofica. È una questione politica, economica e sociale. Se non sappiamo chi siamo, non possiamo nemmeno contarci, né capire di cosa abbiamo bisogno e, di conseguenza, realizzarlo.
Ma non ci sono risposte facili. Definire un nomade digitale è come cercare di disegnare una mappa di un territorio in continuo movimento. Appena pensi di averlo incasellato in una definizione, vengono fuori altre variabili che non avevi considerato, altri modi di esserlo in cui certe persone si riconoscono e altre no.
L’intervento di Dave Cook, ricercatore e antropologo a UCL e Visiting Fellow CMU, ha cercato proprio di rispondere a queste domande. In un suo paper scientifico del 2023, dava questa definizione, che ricalca una sua personale interpretazione del fenomeno e del termine nomade digitale.
“I nomadi digitali usano le tecnologie digitali per lavorare a distanza…lavorano e viaggiano contemporaneamente…hanno autonomia sulla frequenza e sulla scelta del luogo….e visitano almeno tre luoghi all’anno che non siano la propria casa o quella di amici o parenti”.
Per differenziare i nomadi digitali rispetto agli altri tipi di viaggiatori e lavoratori, Dave Cook ha deciso di utilizzare due assi: mobilità e relazione con il lavoro.
Ecco un’immagine tratta dalla sua presentazione:
Troppo Lenti per Essere Considerati Turisti, Troppo Mobili per Essere Considerati Residenti
In realtà la questione dei 3 luoghi da visitare in un anno e più in generale il concetto ”dell’alta mobilità” mi ha fatto sorridere: mi vengono in mente diversi slowmads, nomadi digitali che scelgono di risiedere a lungo nei Paesi che visitano, che non si troverebbero d’accordo.
Ma c’è anche chi invece viaggia in ben più di tre Paesi l’anno. Chi sostiene che un nomade digitale non ce l’abbia proprio, una “base”. Chi va a vivere nei coliving, perché sono la chiave di accesso alla propria comunità internazionale. E chi si trasferisce a lungo in un Paese, affittando un appartamento e vivendo il più possibile come un abitante locale.
Plumia Connect - Essaouira Maggio 2025 - Photo di Ilaria Cazziol

Siamo tutti lavoratori da remoto, ma non tutti i lavoratori da remoto sono nomadi digitali. E tutti i nomadi digitali hanno la propria definizione di nomadismo digitale, basata sulla propria modalità.
Per quanto sia importante cercare di rispondere a queste domande, forse la cosa davvero importante è solo continuare a farsele. Per ricordarci che ci sono infiniti modi di essere nomadi digitali, alcuni più vicini al turismo classico, altri più al concetto di Expat, altri che cambiano di stagione in stagione.
Plumia Connect è stato il luogo in cui queste domande sono emerse con forza e sincerità. Un evento piccolo, curato, selezionato. Lontano dai grandi summit internazionali, più vicino a un esperimento sociale, a una comunità temporanea dove riflettere collettivamente sul presente e sul futuro del nomadismo digitale.
I Grandi Temi Emersi Durante la Conferenza (e cosa significano per l’Italia)
1. Quanti e chi sono (davvero) i nomadi digitali?
Sempre secondo Dave Cook, antropologo e ricercatore UCL, per riuscire a rispondere la definizione va raffinata a seconda di quali categorie consideri o meno nel calcolo (ad esempio, gli aspiranti nomadi digitali in fase di test e tentativi, che lui chiama “experimental nomads”, vanno considerati? E gli slowmads?).
Anche risolvessimo il problema della definizione però, rimane il fatto che non abbiamo dati affidabili. Alcune stime parlano di 45 milioni di nomadi digitali, ma non esiste (e non può esistere) un censimento reale. Questo rende difficile progettare politiche pubbliche o attrarre questi lavoratori in modo mirato.
Per l’Italia, significa che prima di attrarre bisogna conoscere, capire, mappare, ascoltare. Per questo il lavoro del Comitato Tecnico Scientifico dell’AIND e la creazione di report annuali per fotografare il fenomeno sono fondamentali. Non possiamo limitarci a copiare quello che fanno altri paesi o procedere semplicemente per tentativi lasciando spazio a interpretazioni soggettive del fenomeno.
2. I visti per remote workers: buoni sulla carta, ma poco usati
Una delle informazioni più sorprendenti è stata questa: solo il 4% dei sedicenti nomadi digitali usa davvero i “digital nomad visa”.
Lo ha spiegato in modo cristallino Kaisu Koskela, ricercatrice specializzata nei movimenti transnazionali: questi visti sono troppo rigidi, poco compatibili con lo stile di vita dei nomadi digitali (di chi cambia Paese frequentemente, o quantomeno non vuole restare ingabbiato in pratiche burocratiche complesse) e con requisiti spesso proibitivi di reddito minimo alto, burocrazia complessa, richieste di permanenza minima.
Per la maggioranza dei digital nomads in possesso di passaporti forti, la cosa più semplice rimane viaggiare con i visti turistici e, all’occorrenza, trovare escamotage per estenderli.
I digital nomad visa nascono per attrarre, ma non per rispondere davvero alle esigenze di questo pubblico. Non significa che non siano utili, ma in questo momento vengono utilizzati perlopiù da altri tipi di migranti “fiscali”.
Immagine tratta dalla presentazione di Kathleen Di Paolo a Plumia Connect
In Italia il visto per nomadi digitali è una realtà già da oltre un anno, ma nessuno ha davvero capito come si ottenga, e per questo non c’è stata quasi nessuna richiesta. Nessun visto di questo tipo, comunque, è stato ancora emesso.
La sfida è farlo bene: non un visto per pochi privilegiati condito di burocrazia farraginosa, ma uno strumento agile, flessibile, che tenga conto della realtà mobile e fluida dei Nomadi Digitali.
3. Le comunità contano più del WiFi
Il workshop sulla “habitatification”, condotto da Sam Chua, ha sfidato i partecipanti a ripensare città e territori non solo come “luoghi dove lavorare”, ma come ecosistemi da co-progettare insieme a chi li vive, nomadi inclusi.
In tutte le risposte è emerso un punto: i nomadi digitali non cercano solo belle case e spazi di coworking. Cercano connessioni. Comunità. Un senso di casa, anche se temporaneo.
Per un Paese come l’Italia, questo significa che l’attrattività non è solo infrastrutturale, ma culturale e sociale. Servono piccoli gesti: eventi locali, rituali condivisi, progetti di comunità. Serve coinvolgere chi già vive quei territori, non calare tutto dall’alto.
Come ha detto Ali Greene, digital nomad experience designer, consulente per il remote work e autrice, i Paesi e le singole località che vogliono attrarre nomadi digitali devono puntare sui propri punti di forza ed essere trasparenti su quelli di debolezza.
Essere consapevoli e trasparenti su ciò che si ha da offrire (un ambiente tranquillo, accesso alla natura, eventi comunitari) e su quali sono i limiti (mancanza di trasporti pubblici, costo della vita più elevato, etc) permetterà di attirare i nomadi digitali giusti per una determinata destinazione: sono loro quelli che vi prospereranno, contribuiranno positivamente e diventeranno un amplificatore per la comunità.
4. Una risorsa economica (ma anche umana)
Dalla presentazione di Kathleen Di Paolo a Plumia Connect
Kathleen Di Paolo, consulente di tassazione internazionale e fondatrice di Wanderers Wealth, ha portato alcuni numeri che fanno riflettere:
- Barbados ha incassato 100 milioni di dollari in meno di un anno con il suo Welcome Stamp, il visto per nomadi digitali introdotto tra i primi
- I DN spendono il 35% del loro reddito localmente, nei Paesi che visitano
- In UK si perdono oltre 3 miliardi l’anno perché i lavoratori scelgono di andare altrove
Ma non è solo una questione di soldi: i nomadi digitali investono, creano aziende, portano know-how, ispirano innovazione. Ma spesso si trovano davanti Paesi in cui richiedere il visto adatto per fare tutto questo è “più complicato che adottare tre figli in tre Paesi diversi”, come ha raccontato Kathleen riportando il commento di una sua cliente (che l’ha fatto davvero).
Per l’Italia potrebbero esserci opportunità enormi: dal contrastare lo spopolamento dei piccoli centri delle aree interne e rurali del nostro Paese e rilanciarne le economie locali, fino ad attrarre giovani talenti internazionali in modo sostenibile e invertire la tendenza all’abbandono di questi territori.
Ma per farlo serve una visione chiara e condivisa, servono politiche ad hoc, incentivi validi e un cambiamento culturale profondo.
L’Estonia ad esempio ha fatto scuola nel mondo con il suo sistema di e-Residency. Pallas Mudist, Digital Nomad Visa Project Manager di Visit Estonia, ha raccontato un percorso evolutivo, non una strategia spot:
- prima attrai (con il visto per visto DN)
- poi permetti di stabilirsi (residenza)
- poi dai accesso a servizi (azienda, cittadinanza)
L’Estonia non ha solo “venduto” un visto: ha creato un sistema per attrarre e far restare i talenti.
E ha messo un punto chiaro: “Non tutti i lavoratori da remoto hanno bisogno di un visto. Ma tutti hanno bisogno di chiarezza e struttura.”
5. Niente di ciò sarà realmente possibile se non “salviamo e incentiviamo” il lavoro da remoto
Plumia Connect - Essaouira Maggio 2025 - Photo di Ilaria Cazziol

Co-fondatore di Time Doctor e Running Remote, Liam Martin ha usato una provocazione forte nel suo speech intitolato: “Do we hate our employees?”
Dietro la resistenza al lavoro remoto, sostiene, ci sono interessi economici enormi, come quello dell’immobiliare commerciale, oggi in crisi. Ma anche una classe manageriale impreparata, che vive il remote come una minaccia.
Ha proposto una strategia semplice:
- Misurare i dati (produttività, benessere) per dimostrare a noi stessi e agli altri che funziona
- Condividere cosa funziona, istruendo soprattutto il middle management sulle best practice
- Mobilitare una narrazione che restituisca dignità al lavoro da remoto (smettiamola di cliccare e condividere quegli articoli clickbaiting che gridano alla fine del remote work e al ritorno in ufficio)
Un messaggio chiave anche per le aziende italiane, che spesso stanno usando il “back to office” come scusa per tenere sotto controllo i propri dipendenti e non impegnarsi davvero a cambiare la propria cultura aziendale.
All’estremo opposto del continuum ci sono aziende come Safety Wing, la compagnia assicurativa che ha creato Plumia, che non solo è (ovviamente) del tutto distribuita e remota, ma sta attivamente costruendo una “rete di sicurezza” globale per i cittadini del mondo.
Perché il nomadismo digitale è molto instagrammabile e sexy, ma ci sono tanti aspetti di cui nessuno parla che costituiscono un enorme problema per chi decide di non “appartenere” più a uno specifico Stato.
Come ci ha ricordato Brennan Cowley, Product Manager di Safety Wing, oggi tutto ciò che normalmente è legato alla nostra cittadinanza (assicurazioni, pensioni, welfare, protezione legale) è agganciato al territorio (con tutta una serie di differenze e discriminazioni, tra l’altro).
Ma i nomadi digitali che scelgono di non appartenere a un luogo, perdono tutto questo. E quindi non hanno accesso stabile a nessuna protezione.
SafetyWing in questo senso è riuscita nell’arduo compito di rendere “sexy” un’assicurazione, legando il proprio brand a questa missione. Sganciare i diritti dalla geografia, creando un’infrastruttura completa per chi vive oltre i confini, con strumenti come:
- assicurazione sanitaria globale
- protezione del reddito
- supporto per i visti
- e a partire da giugno 2025, Nomad Citizens, un programma che promette di offrire una forma evoluta di “cittadinanza nomade”.
Una visione coraggiosa, forse anche provocatoria. Ma che mette sul tavolo un tema urgente: se il lavoro è diventato globale, i diritti devono seguire. E se gli Stati non riescono a farlo, forse toccherà alle organizzazioni provarci davvero.
Plumia Connect - Essaouira Maggio 2025 - Photo di Ilaria Cazziol

E l’Italia? Spunti e Visioni per Rendere il Nostro Paese Una Destinazione Attrattiva per i Nomadi Digitali
Partecipare a Plumia Connect ha rafforzato una convinzione che porto avanti da anni con l’Associazione Italiana Nomadi Digitali: l’Italia ha potenzialmente tutte le carte in regola per diventare una delle destinazioni più ambite per chi lavora da remoto. Ma servono competenze e scelte importanti:
- Serve visto italiano per nomadi digitali che sia realmente accessibile, agile, coerente con le esigenze di flessibilità e stile di vita dei nomadi digitali,
- Servono nuovi contratti di lavoro, e un quadro normativo che regolamenti e incentivi il lavoro da remoto e il nomadismo digitale nel nostro.
- Serve urgentemente un dibattito pubblico sui nuovi modi di abitare con-temporaneo e nuovi contratti di locazione ad uso transitorio, più semplici e gestibili anche da remoto.
- Un sistema burocratico, fiscale e previdenziale chiaro e semplificato per i nomadi digitali che sceglieranno l’Italia come destinazione privilegiata dove vivere e lavorare da remoto.
- Servono incentivi e agevolazioni per i lavoratori da remoto e nomadi digitali, sia italiani che stranieri, che sceglieranno di venire a vivere e lavorare nei piccoli centri delle aree interne e rurali del nostro Paese
- Servo progetti di rigenerazione locale che puntino ad attrarre nomadi digitali e lavoratori da remoto considerandoli come nuovi cittadini temporanei e non solo dei semplici turisti
- Serve creare nei piccoli centri delle aree interne e rurali del Paese un ecosistema di servizi umani. fisici e tecnologici, in grado di attrarre, accoglie e ospitare i professionisti e lavoratori del nuovo millennio,
seguendo il modello che l’Associazione Italiana Nomadi Digitali ha elaborato e sperimentato con successo nel corso di questi anni. - Serve una proposta nazionale e una nuova narrazione che non banalizzi il nomadismo digitale come una moda da Instagram, ma lo riconosca come una leva strategica di sviluppo economico, sociale e demografica per il nostro Paese
Un Posto nel Mondo
Alla fine, molte delle domande che ci hanno accompagnati per tutta la conferenza non hanno trovato una risposta definitiva. Su alcune ci si sta lavorando, altre probabilmente non possono averne (come il reale numero dei nomadi digitali nel mondo).
Forse la cosa importante sono le domande stesse, perché ci permettono di appartenere a questa visione di mondo più fluida, aperta, interconnessa. Dove identità, lavoro e casa non sono più cose fisse, ma relazioni mobili nel tempo.
E se l’Italia saprà farsi trovare pronta, potrà essere uno dei posti più belli al mondo dove vivere e lavorare da nomade digitali e dove fermarsi, per un po’. O, come ci insegna Plumia, uno dei nodi di una nuova geografia fatta di persone, non solo di confini.
L’Italia può decidere se restare a guardare, o se diventare una destinazione chiave di questa trasformazione.
Per farlo servono: visione, coraggio e collaborazione tra pubblico, privato e enti del terzo settore! Non solo per attrarre nuovi visitatori, ma per costruire insieme un futuro diverso per il lavoro, la vita e il futuro dei nostri terrtori e delle prossime generazioni!