Da Smart Working a Smart Living

Lavorare in smart working? Forse bisognerebbe cominciare a chiamarlo smart living, per aiutare tutti a ripensarsi in una vita e un lavoro migliori per noi e le nostre comunità.

Francesca Folda: Per 20 anni giornalista, nel 2014 ho girato il mondo per un anno sabbatico, prima di fermarmi a studiare Social Innovation Management a Nairobi, in Kenya, dove ho vissuto due anni. Oggi sono Direttore Global Communication di Amani Institute che ha sedi in Kenya, India e Brasile e forma professionisti di tutto il mondo per carriere di impatto sociale.

Pubblicato il: 21 Maggio 2021 | Categoria:

Ogni tanto scappa persino a mia madre:Sono contenta che tu sia lì in vacanza”, mi dice al telefono. E io mi infurio. “Ma quale vacanza, sto lavorando come una pazza!

Eppure la capisco.

Ci sono mille nomi – smart working, remote working, nomade digitale, location independent worker – , ma ancora nessuno che colga l’essenza di una vita così.

Remote Worker?

Dal 2017 il mio lavoro sta tutto in un computer che pesa poco più di un chilo, nel cloud che mi costa pochi euro, e nelle relazioni che ho costruito nel corso della mia carriera.

In questi ultimi anni ho lavorato prevalentemente per Amani Institute, un’organizzazione non profit che ha sede in Kenya, India e Brasile e forma professionisti di tutto il mondo che vogliono avere impatto sociale. Ho fatto anche tante altre consulenze in Italia, ho tenuto corsi universitari, ho partecipato ad eventi.

Non sono sempre “in remoto”: tra il 2017 e il 2019 sono stata 5 volte in Kenya, 1 in Brasile, 2 in India per lavorare fianco a fianco con i colleghi di Amani Institute, per incontrare i Fellow del programma in Social Innovation Management. Almeno due settimane, qualche volta più mesi.

Per ricaricarmi di energia nei brainstorming e per accogliere nuove prospettive confrontandomi con gente di tutto il mondo. Con molti di loro (572 Fellow da 67 Paesi!) sono nate amicizie che superano confini, fusi orari e cambi di lavoro.

I viaggi all’estero si sono fermati con la pandemia e, certo, ho una grandissima nostalgia di volare. Mi mancano persino le code in aeroporto…Ma ciò che rende diverso il mio modo di lavorare non è il numero di timbri sul passaporto. Anzi.

Location (and time) Independent Worker

È speciale che – senza prender ferie, senza dover incastrare calendari impossibili- dal 2017 a oggi ho potuto essere esattamente dove volevo essere, sempre e comunque. Per impegni di lavoro, in Italia e all’estero, ma anche per compleanni di famiglia, cresime e feste comandate. E, ancora più importante, accanto a familiari o amici ogni volta che c’è stato un problema, senza dover correre solo per un week end, libera di lavorare con il computer sulle gambe anche da una corsia di ospedale. Ho potuto fare viaggi ed esperienze con nipoti di tutte le età, togliendomi di torno il lavoro la mattina presto o la sera tardi dopo averli messi a letto.

Nomade Digitale?

Ho una casa piccola a Milano. Ci sono tutte le mie cose, i libri, i ricordi dei viaggi, le fotografie. I servizi di piatti e bicchieri pregiati della nonna, la residenza fiscale.

Sono nomade? Semi-nomade?

Non so, ma ho scoperto che mi basta davvero poco per sentirmi a casa. Viaggio con un bagaglio sempre meno pesante. Mi basta un posto pulito, dove sentirmi sicura e vivere le mie giornate con il ritmo giusto per me, unendo vita privata e lavoro, sapendo di avere a disposizione quel che è necessario e stimoli sufficienti per non annoiarmi.

Mi aiuta sempre sapere che, così come arrivo, posso ripartire. E ovviamente mi aiuta collaborare con persone che hanno la stessa agilità: sono lavoratori digitali anche i miei colleghi, la mia commercialista, il mio medico, nel senso che posso contare sul loro supporto sempre anche da remoto per tutto ciò che il digitale consente.

Amani Institute è un’organizzazione innovativa e inclusiva a partire dal suo DNA che fa della condivisione il suo mantra, che si tratti di condividere progetti o file aperti. Porto lo stesso metodo di lavoro in tutte le mie collaborazioni, in tutte le partnership.

Smart Working?

Forse bisognerebbe cominciare a chiamarlo smart living per aiutare chi è in smart working forzato dalla pandemia a ripensarsi per poter vivere meglio.

Chiariamo due cose.

  • Primo.
    So che è un privilegio avere un lavoro in questi tempi difficili, ma il costo della vita itinerante non è più alto, anzi probabilmente molto più basso, di quello di chi vive e lavora stabilmente a Milano o in un’altra grande città. Non ho più l’auto, ho abbattuto i pasti fuori, spendo decisamente meno in scarpe e vestiti perché non penso più davanti all’armadio “sempre le stesse cose…”. Ho molte meno spese fisse e approfitto delle opportunità.

    Puntare su località in bassa stagione aiuta sempre, avere chiaro che cosa stai cercando quando ti metti in movimento è fondamentale. Wi-Fi, cucina in ordine (per non dover mangiare sempre fuori), una bella vista davanti alla finestra sono i miei requisiti chiave. I vostri?

  • Secondo.
    Essere sempre online non è divertente, lo so. Anch’io soffro della cosiddetta Zoom Fatigue e non vedo l’ora di dire “Incontriamoci, parliamone davanti a un caffè”. Ma questo succede per la pandemia, non per la scelta professionale che ho fatto. Certo, il lavoro da remoto richiede più autodisciplina, c’è il rischio di non fermarsi mai, di non saper regolare tempi ed energie. Si può (si deve) imparare a farlo.

Ma allora che cosa è smart?

Quello che conta quando hai un lavoro che ti consente di essere dove vuoi quando vuoi, è proprio il fatto di essere.

Non corri da casa all’ufficio e ritorno. Non passi superficialmente da una località di villeggiatura. Non sei un turista, non sei nemmeno uno del posto. Ma sei lì, con tutto te stesso. Con il tempo necessario per mettere i tuoi ritmi in sincrono con quelli del luogo, per imparare a cucinare con gli ingredienti locali, per accorgerti delle stagioni, per percorrere i sentieri. Soprattutto, per conoscere le persone del posto, per imparare da loro e per comprendere i loro problemi. È normale che ti venga voglia di dare una mano. Ti senti parte.

Purpose Economy e Growth Mindset

Ecco due parole chiave che non si citano abbastanza quando si parla dei nomadi digitali.

Non siamo digitali nel senso che ci occupiamo solo di software o social media. Facciamo cose reali e le facciamo calandoci nella realtà che ci sta intorno. Siamo digitali perché usiamo gli strumenti che la trasformazione digitale ha messo a disposizione, non solo per lavorare, ma per pagare tasse e bollette, per avere la nostra musica preferita con noi, per comprare un nuovo carica batterie del telefono che si rompe mentre sei in un paesino dove nessuno lo vende.

Non siamo nomadi nel senso che andiamo in giro come turisti toccata & fuga. Siamo nomadi come i pastori che studiano la natura dei territori che attraversano per scegliere dove e quando fermarsi, come i carovanieri che alla “Posta” portavano e ricevevano messaggi, lasciando qualcosa di sé – un bene, un ricordo, un’idea, un network — per chi è lì e per chi passerà dopo di loro.

Ci spostiamo per trovare condizioni migliori per noi, ma soprattutto per imparare qualcosa di nuovo su di noi e sul mondo che ci circonda, e per restituire alle comunità che incontriamo in ogni modo possibile il valore che riceviamo. E quando torniamo – a casa, alla famiglia, a una città come Milano – distribuiamo quel valore ad altri, portando nuove idee e nuove ispirazioni.

Avete mai pensato a quanto valore genera la costruzione di un ponte rispetto alla costruzione di un muro? Ecco, chi lavora incontrando luoghi e persone, si fa ponte, per sé e per gli altri. Se potete, abbattete il muro del vostro ufficio.

Ne abbiamo parlato nell’evento online “Carriere di Impatto Sociali per Nomadi Digitali” con i Fellow italiani del corso in Social Innovation Management che su flessibilità e impegno sociale hanno disegnato la loro carriera.

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